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Negli antichi miti greci il nostro corpo, privo di vita, riveste la forma di una realtà a due facce: una è la psyché termine da collegare con psýchein “respiro, soffiare”, inconsistente, invisibile, inafferrabile, fantasma, sogno, ricordo ad immagine e somiglianza del corpo ma pur sempre ombra, quindi vuoto, evanescenza; L’altra è il kolossós (pietra grezza non iconica) che invece si presenta compatto, duro, massiccio, presente e che, al contrario della psyché, non ci rimanda l’immagine del corpo vivente ma il suo essere di altra natura, la sua non-forma, la sua assenza.

Il desiderio però ad un certo punto prende corpo e potrebbe essere rappresentato dal rinascere con migliori speranze?

Ora apro, in occasione del carnevale, (uno dei più belli e che più di tutti ha mantenuto la sua originalità è quello di Montemarano in provincia di Avellino), una riflessione sul tema della: “nascita, vita, morte” e qui aggiungo della “rinascita” come eventi non più solo simbolici-rituali, ma come possibili almeno dal punto di vista della “morte sociale”, realizzabili non solo come riti magici ma come percorsi esperienziali di vita. Lo stesso percorso del Clown appartiene a mia opinione a questo mito e rito.

La morte in questo caso la cerchiamo, oltre che nella sua concretezza del disfacimento fisico, all’interno di alcuni tra i più importanti riti di passaggio della vita di un individuo, si può intendere ed intendo non la morte fisica ma la morte sociale come crisi della presenza della speranza e della gioia di vivere.

“Un sorriso fatto ai vivi è meglio di una fontana di lacrime sulla tomba dei morti.” (Seneca)

Perché allora non “morire prima per non morire” ?

Nel laboratorio esperienziale che propongo per andare alla ricerca del tuo clown ho introdotto questo mito-rito. Già altre volte ho precisato che andare alla ricerca del clown è un po’ anche il viaggio dell’eroe: i sei archetipi fondamentali: bambino, orfano, martire, guerriero, viandante e mago, poi ci aggiungo il settimo il folle.

In questo caso voglio ringraziare il mio caro amico Franco Arminio (scrittore e poeta paesologo dell’Irpinia d’Oriente) per avermi concesso l’uso dei testi (oggi ancora in via di pubblicazione) delle sue “Cartoline dai Morti”, con le quali introduco il rito della “Morte Sociale” come abbandono di uno status, per ritrovarne un altro, per passare ad un altro più evoluto, attraverso il mito stesso della nascita, della vita e della morte e così rinascere clown: “uomo intero” (il nostro bambino interiore).

“L’uomo di età avanzata non esiterà a chiedere a un bambino di sette giorni dov’è il luogo della vita, e quell’uomo vivrà. Perché molti dei primi saranno ultimi, e diventeranno tutt’uno.” (Jesus)

“Morte sociale” quindi come abbandono di uno status sociale e incapacità ad affrontare il viaggio il passaggio come permanenza nello stato di margine; come permanenza nel lutto, nel tabù della morte e/o della perdita della propria comunità.

Fuga o lotta? Direbbe Henry Laborit !

In questo caso una morte immaginata come fuga e lotta e quindi perdita dell’individualità; perdita della rotta certa. Qui il tema della rinascita sarà il tema, non solo simbolico ma “praticato nel sogno” di ognuno: per “il rinascere a nuova vita”. Nella sostanza “praticare il sogno” (è per questo noi stessi: sognatori pratici).ì

Nell’evento della rinascita del proprio “clown” (uomo intero) che resta non successivo alla morte ma lo precede, identifico lo stesso rituale del “morire prima per non morire, in maniera liberatoria viene fuori una “morte” nella sua duplice forma fisica e sociale non solo nel senso metaforico, ma vissuta, agita, come negli antichi riti sciamanici e/o come nel carnevale. La maschera – o meglio le maschere che siamo costretti a indossare nel quotidiano – muore e rinasce a nuova vita. Ma, nel caso del clown non si tratta più per l’appunto di indossare una nuova maschera ma di smascherare se stessi in quel “se” (senza accento) ora un “se” non più affermazione di uno status, rappresentanza di sè, ma congiunzione per avvinarci a un “se” (per l’appunto senza più accento, in un movimento che va verso, l’altro da sè: “io sono altro da me”.

Poeticamente parlando lo stesso clown compie così il più alto e rivoluzionario atto poetico, rappresentatoci in passato da Artur Rimbaud e comprendere così meglio, il come e perché da questa morte sociale, si può arrivare ad una rinascita, ad una nuova consapevolezza: “io sono, altro >(da sé)”.

Il clown in questo caso è come l’asino (simbolo) e resta unificatore del corpo e dello spirito. Be se il corpo è la verità ma il corpo è vuoto-vuoto e l’unico che lo può riempire è appunto lo “spirito-so” è il “gioioso” dell’uomo intero. “Fuori” dal dualismo. “Fuori” dalla paura della stessa morte, allora anche il Clown come “uomo intero” può aprire a nuove speranze di vita e di rinascita sociale. Il clown in questo caso si fa attraversare anch’esso dal dolore e dal pianto ed attraverso il sorriso apre una strada che può portare l’uomo alla conquista ed al recupero di una individualità sociale nuova o perduta: “ridere di sé”.

Gli stessi pianti, lamenti e sorrisi rientrano tutti nel versante simbolico-mitico-rituale della morte/rinascita che prediligerà, il mito ed il rito del “lamento funebre”. Anche nel nostro caso attraverso musiche dolci e molto ritmate in molti casi accompagnano il rituale della morte e rinascita del “sè” in “se”.

Tra i tanti miti-rito in Sardegna c’è il “mito-rito dell’argia”, come la Tarantola in Puglia, restano miti e riti che vivono nell’omonimo rituale esorcistico-coreutico-musicale che nelle sue varie forme, tentava sempre di contenere e modellare culturalmente e socialmente, attraverso una partecipazione comunitaria, la crisi dal quale era stato colpito l’argiato o morso dalla tarantola che in quel momento stava affrontando ogni sua cirsi, dolore, maschere e condizionamenti sociali, una vera e propria morte sociale, attraverso il rituale delle danze.

Il rito dell’argia – come quello della tarantola – si pone come modello di una possibile risoluzione della crisi assenza-morte fino al recupero dell’individuo che sperimenta così una rinascita non solo biologica ma soprattutto sociale: “crisi/morte = separazione; rito = margine; risoluzione/rinascita = reintegrazione” .

Lo stesso percorso del Clown è di per se “mito e rito” e quindi anch’esso antico ed ha in se la capacità di “prendersi cura di sé”.

Nei gruppi davanti agli sguardi e all’ascolto di ciascun partecipante, si può verifica un  possibile percorso di separazione-margine-reintegrazione-guarigione.

“Tutto per colpa di una vacca che di notte stava in mezzo alla autostrada.”
(Franco Arminio)

E, così ….

“Fratelli miei, le campane sono tutte addolorate,
suonano per tutta la notte.
Ritornano stanotte in visita i nostri morti alle case,
siedono alle tavole imbandite e conversano d’un tempo
che c’era l’acqua e il pane anche per loro e le frutta
e ogni bene a portata di mano, mentre adesso è come in sogno;
e s’indugiano a guardare la bianca tovaglia finché non scoppia,
come un colpo di fucile,
il primo canto del gallo, allora se ne vanno dicendo:
‘Una volta questa voce non ci spaventava; una volta ci risvegliava
e ora ci addormenta’.”
(S. Cambosu)

Il paradosso che la stessa morte, in questo caso, diventa un pezzo di vita che la prolunga.

Uno dei miti più antichi di rinascita è quello rappresentato dal buttare pietre dietro le spalle. E’ sicuramente un rituale che ne ricorda altri come quello di Orfeo ed Euridice:

“Orfeo scende agli inferi per riportare indietro la moglie Euridice, ma la perde perché all’ultimo momento si gira verso di lei. Non ci si deve voltare “a guardare i morti, questa è una antica legge, farlo significa restare prigionieri del loro mondo tenebroso. Anche il padre di famiglia romano si guarda bene dal farlo. L’antico rituale voleva che, ogni anno, egli compisse una sorta di purificazione dai fantasmi antenati – i Manes, gli spiriti dei morti – che sono ancora presenti nella sua casa e, in qualche modo, possiedono lui e la sua famiglia. Lui deve invitarli ad uscire, e lo fa scagliando delle fave nere dietro le proprie spalle, senza voltarsi. Insomma, l’agire senza voltarsi, il compiere azioni non davanti a sé ma dietro, vuol dire: io sto facendo qualcosa, però non voglio entrare in contatto con ciò che sta avvenendo dietro di me. Perché? Ma perché questo sarebbe troppo per me; se io guardassi sarei rovinato, sarei contaminato, oppure rovinerei l’evento che si sta realizzando dietro le mie spalle.”

« Beato chi, protetto dagli dei, conoscendo i misteri divini conduce una vita pura e confonde nel tiaso l’anima, posseduto da Bacco sui monti tra sacre cerimonie » (Euripide, Le baccanti)

Ecco perché lo stesso percorso del clown è rivoluzionario e poetico; una “danza” un rito di “morte-rinascita”; per questo il clown non guarda con gli occhi, ma con il naso perché anch’egli si deve distaccare da un’altra creatura: se stesso; che vedrebbe il mondo sempre allo stesso modo.

Il Clown anche per questo deve avere “un grande ideale” altrimenti gli dei lo uccidono e per fare le cose “non deve guardarsi indietro”, lasciare il mistero dietro di lui, così quando esce sul palco della nuova vita potrà essere neutro (pulito delle sue paturnie).

Qui, entra il lutto ed il rito del pianto funebre o meglio del “saper piangere” nella consapevolezza della perdita. Perdersi nel deserto, come a volte spiego cos’è il pianto, se non il “vuoto” che noi stessi possiamo riempire con un nuovo “spirito” una nuova visione del mondo o meglio di come esso ci guarda e lo guardiamo?

Il vuoto, il deserto, l’essenzialità dei piccoli passi, il puntare il naso e vedere sempre davanti a noi, con gli occhi nello spazio infinito. Stare al buio (con gli occhi chiusi) è l’unico modo per vedere le stelle, quel cielo infinito che si può spalancare in occasione di una morte sociale e/o dell’altro nel concetto di perdita o di presenza, ed è l’unico modo (cosa) che ci permette di vedere la morte ad occhi aperti e riprendere la nostra presenza e con essa la nostra speranza!

Sto provando ad immaginare ed inserire adesso nei miei laboratori esperienziali l’esercizio del pianto spontaneo o rituale: gesti di disperazione molto antichi, codificati, oppure si mettono le mani sulla testa; e soprattutto donne che cantano antichi canti di lutto in forma di cantilena ossessiva e ripetuta. Perché? Ma per giocare anche con ironia della nostra misera esistenza ed essere più consapevoli che il pensiero è illusione ed il corpo la nostra realtà. E poi i colori della voce aiutano a manifestare meglio le nostre emozioni.

Anche durante il carnevale si ritualizza attraverso il ballo, il canto, il pianto e la disperazione. Sorridere (ridere sopra). Il Carnevale di Montemarano, tratta di una delle più interessanti forme musicali di Tarantella Montemaranese. Guidati dai Caporabballo (originali Pulcinella Montemaranesi), molte persone saranno accompagnate verso un rito per esorcizzare la morte.

Nel rito del pianto delle Meleagridi che si abbandonano al pianto funebre, ma in un modo cosi straziante che Artemide, a un certo punto, ebbe pietà di loro, e la dea le trasformò negli uccelli che, per l’appunto, si chiamano «meleagridi», meleagrìdes, ecco cosi ogni persona si può trasformare in uccello (io spesso mi trasformo in gabbiano) e trovare nuova linfa vitale e rinascere.

Quando cantavano le meleagridi ripetevano il loro nome quasi a voler ricordare in pianto straziante di quelle donne. Così avviene nel mito anche per l’usignolo che sarebbe stata Procene che aveva ucciso il suo stesso figlio e che trasformata in uccello continua a ripetere all’infinito il suo nome: Itù, Itù . Così accadeva per la rondine e l’upupa. Lo stesso accade con “io sono, ..io sono…l’altro”.

« Non è sapienza il sapere, l’avere pensieri superiori all’umano. Breve è la vita, chi insegue troppo grandi destini non gode il momento presente. Costumi stolti di uomini dissennati stiano lontani da me » (Euripide, Le baccanti)

Le stesse Baccanti sono animate da forza sovrumana e bestiale, ad esempio quando assalgono paesi o squartano vive mandrie di mucche. La follia pura prende loro possesso. Nel secondo caso, invece, esse appaiono come portatrici di un tipo di società alternativo a quello civilizzato della moderna Tebe, una società a diretto contatto con la natura e con gli dei, in cui la follia diventa un mezzo per uscire dagli schemi e raggiungere una maggiore consapevolezza di sé. La stessa forza trasgressiva viene descritta nelle figure dei Buffoni Sacri d’America, nel bellissimo libro di Giliberto Mazzoleni che vi invito a leggere. Per questo anche il Clown è eco-compatibile ed è anche lui cosciente come Carnevale che è una concessione a liberarci delle proprie maschere del quotidiano che siamo costretti ad indossare per convenzione e cultura. Il clown rappresenta come i Buffoni sacri d’America uno stato d’animo liberato. Poi c’è la “quaresima” che rappresenta la mediazione e meditazione della disciplina della serenità ed il riavvicinarsi ognuno al proprio Dio.

Ma alla fine cosa muore per davvero?

Assolutamente niente, perché anche la persona, il clown, come carnevale “Carnevale muore”, allorquando, dopo il commiato funebre-ironico, le danze trasgressive, legge e rappresenta agli altri il suo grottesco testamento, si lancia in un’ultima danza sfrenata di tamburi fino alla rottura, nel caso del Carnevale di Montemarano della “Pignatta” o dei Buffoni sacri d’America nella provocazione del vivere la propria e più intima spiritualità, unica dimensione che ci fa riavvicinare al nostro Dio.

Che cosa è la pignatta? Nel caso del Clown possiamo dire che si rompono degli schemi mentali e nella nuova consapevolezza di “se stessi” si avvia un processo di ricostruzioni, rinascita, battesimo a nuova vita, per nuovi reti neuronali (sinapsi), per trascrivere tutte le nostre “false credenze” e così, come nel caso della pignatta possono fuoriuscire “biscotti, dolciumi e caramelle” che simbolicamente rappresentano, un buon auspicio per la nuova “primavera” che si avvicina.